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Nino Santomarcoalla Casa delle Culture

Mostra personale del pittore NINO SANTOMARCO, alla Casa delle Culture - via Vittorio Emanuele II, 3/5 ACQUEDOLCI (Me) __ Mostra personale del pittore NINO SANTOMARCO, alla Casa delle Culture - via Vittorio Emanuele II, 3/5 ACQUEDOLCI (Me) __ Mostra personale del pittore NINO SANTOMARCO, alla Casa delle Culture - via Vittorio Emanuele II, 3/5 ACQUEDOLCI (Me)

san marco d'alunzio

tramonto

girasoli

strada d'autunno

 j love sant'agata

mareggiata

  MOSTRA DI NINO SANTOMARCO

I colori della memoria

di Salvatore Di Fazio

  Ci sono paesi dell’entroterra dei Nebrodi che, secondo le stagioni, organizzano a scopo turistico o didattico, sagre di vario tipo per rievocare e mettere in vetrina – come se si trattasse di eventi folkoristici – scene di vita campestre o di attività contadine che ormai appartengono alla storia dell’antropologia o dell’etnostoria, perché riconducibili a una Sicilia che non esiste più o che, di quella civiltà e di quell’universo contadino che per millenni la improntarono e suggellarono, custodisce solo frammenti, più o meno ibridi, più o meno contaminati, contraffati, deformati.

  Mi riferisco, per fare qualche esempio, ai riti della mietitura del grano, dell’affastellamento dei covoni e del fieno, alla battitura delle spighe dentro il cerchio dell’aia, alla trebbiatura, al ventilamento della paglia per separala dal frumento e a tutti quei lavori che una volta erano richiesti da questa attività.

  E mi riferisco anche al lavoro dei buoi aggiogati e a quello delle contadine e dei contadini intenti a compiere tutte le operazioni connesse al calendario lunare.

  Siamo in un’epoca pre-industriale e pre-tecnologica, quando richiamiamo alla mente queste pagine del nostro passato non troppo lontano. Siamo in quella fase della storia, appunto, che, almeno in Sicilia, vigeva fino agli anni Cinquanta del secolo scorso, o giù di lì, nell’epoca insomma che precede l’avvento delle trebbiatrici, delle falciatrici, dell’automatismo. Fu quella un’epoca che grandi artisti  hanno rappresentato in opere immortali, come il celebre quadro di Jean François Millet, l’Angelus, conservato al Louvre di Parigi, in cui sono rappresentati romanticamente un contadino e una contadina nell’atto di recitare la preghiera della sera.

  C’è, insomma, alle nostre spalle una Sicilia agricola e contadina che non è quella delle odierne serre plastificate o quella dei vivai ovattati e chiusi dentro capannoni di metallo, quasi fossero il loro ventre materno; quella delle ceste di materiali sintetici né quella dei tagliaerba o delle motoseghe o delle vangatrici.

  La Sicilia a cui facciamo riferimento – e a cui si ispira la pittura di Nino Santomarco - è l’isola della fatica e del sudore, delle spigolatrici e dei pastori, degli uomini in abiti di velluto e delle donne in gonna e corpetto, della calura anche, da cui ci si difendeva stringendo il grande fazzoletto rosso a scacchi intorno alla fronte e al collo.

  In breve, era la Sicilia degli umili, della semplicità e della istintività, della stanchezza di vivere e di lavorare, ma anche della sacralità del lavoro e della fatica. Era anche la Sicilia dei prati rossi di papaveri, delle colline a grano, gialle come l’oro, dei prati verdi di erba destinata a fieno, delle distese grigie dopo l’aratura autunnale, dei tramonti incandescenti come le bocche dell’Etna in eruzione, delle mandrie di cavalli e di buoi, dei branchi di pecore addossate l’una all’altra o sparse e biancheggianti sui dirupi.

  E’ proprio questa la Sicilia che Nino Santomarco dipinge ormai da decenni, la Sicilia della memoria, la Sicilia che è stata, la Sicilia che troviamo in una letteratura dalle tinte forti: arcaica, severa, laboriosa, tenace, assolata, solitaria, contadina e idillica.

  La Sicilia di Santomarco è quella di chi  <<va cercando con pazienza e con amore quanto sopravvive, quanto ancora è vero e ci viene da lontano>>.

  La pittura di Nino Santomarco non ricorre mai alla dissoluzione delle forme. Il suo intento figurativo è quello di ritrarre paesaggi, ambienti, attività agricole, segni delle varie stagioni, volti, corpi, gruppi, contestualizzati negli scenari naturalistici in cui vivono, in cui insistono, in cui hanno il loro posto;  e simultaneamente è quello di interpretarli, catturando ciò che sta oltre l’immagine, fondamentalmente la tessitura memoriale, l’anima, per così dire, che vi circola dentro.

  Quello di Santomarco è un ulteriore viaggio nel vissuto della nostra terra: del vissuto paesaggistico (oggi modificato dall’uomo), del vissuto artigianale e rurale (oggi pressoché scomparso), del vissuto umano (oggi reso più tecnologico, più sofisticato, più convenzionale, più meccanizzato), del vissuto religioso (oggi ridotto a meri frammenti di una teatralità e di una spiritualità che hanno smarrito il senso dell’oltre, le dimensioni della coralità e lo spirito della koiné, ovvero della comunità e dell’aggregazione in nome di condivisi valori e di analoghe radici culturali  “ossificandosi” allo stesso modo in cui degli oggetti, degli esseri viventi, dei prodotti umani il tempo asporta le parti ornamentali e riduce il tutto a reperti pietrificati, a semplici fossili.

  In questo cammino a ritroso, in questo itinerario all’indietro, in questo percorso che, per molti aspetti, è somigliante a quelle operazioni di restauro che sono finalizzate a ridare smalto ai manufatti, ai fini della riappropriazione di ciò che una cosa era o significava, il pittore va a cercare le impronte e le suggestioni da cui trarre ispirazione per le sue creazioni: e quando parliamo di <<ciò che era e di ciò che rappresentava>> parliamo di qualsiasi aspetto che concerne una civiltà, una realtà altra, un mondo che non c’è più.

  E poi, che cos’è la memoria? Memoria è la potenzialità e la capacità di rivivere il passato e di percepirlo, di sentirlo e amarlo con le stesse emozioni che hanno provato coloro che le hanno vissute prima di noi.

  Memoria è quel legame affettivo che ci unisce emotivamente e indissolubilmente con gli oggetti che hanno fatto parte della nostra esperienza, a cui siamo legati, a cui guarda la nostra anima con vivo senso di trasporto.

  Noi siamo impastati di memoria perché quello che siamo, quello che sono i nostri desideri, le nostre pulsioni, i nostri sentimenti, tutto quello che in noi appare naturale o istintivo ha una sua genesi e un suo svolgimento.    

  Non nasce dal nulla, non è pura biologia, ma é soprattutto cultura e memoria. Per cui diventa anche narrazione, racconto, affabulazione.

  La memoria storica ci permette così di fermare il tempo. Ci consente di sopravvivere, come afferma giustamente, a tale proposito, Vincenzo Consolo. Ci mette in condizione di perseguire il sogno, i desideri, l’illusione, cioè di soffermarci nel tempo. Tutto questo si oppone a ciò che è aleatorio, saltuario, passeggero, effimero.

  La pittura  diventa così una operazione di ri-creazione, un tentativo (spesso ben riuscito) di trattenere il ricordo e lottare affinché l’inesorabile oblio non cancelli tutto, non riduca tutto a cenere o polvere.

  Quando la memoria si trasforma in pittura, cioè in arte, e ottempera  al senso e allo scopo della riflessione che nasce per lottare contro l’effimero, per aiutarci a trattenere più a lungo le tracce del nostro passaggio in questo mondo, prende forma la rappresentazione che cerca di far riaffiorare le immagini perdute.

             Nino Santomarco, dunque, con questa ennesima mostra si ripropone come pittore. E se il tema dominante è quello della memoria della Sicilia che fu e della Sicilia che se ne va, che va scomparendo, nuovi – e più esperti - sono i colori, le forme, gli stessi contenuti  le stesse testimonianze.

  Ci sono perciò dipinti in cui il tema della “raccolta” dei prodotti della terra o della natura si estrinseca in larghe distese di campagne, in cui gli uomini, gli alberi o le messi vivono in sinergia e in armonia.  Ne vediamo altri in cui la chiesa, le rocce, le piante, il lavoro umano, intento a connotare antropicamente il paesaggio rurale, sono come avvolti in un fitto velo di azzurro per far esaltare il ventaglio di sfumature che si slarga sulla parte mediana o centrale del quadro.

  Ce ne sono altri in cui il paesaggio si divide in due o più piani coloristicamente contrapposti, ma opportunamente integrati, quasi a mettere in risalto – nella totale assenza di elementi arborei – l’isola dei colori, l’isola della luce, l’isola della bellezza nella sua affascinante solitudine.

  Ne ammiriamo altri ancora in cui il paesaggio sconfina, deborda e si confonde o si immerge nel cielo che lo sovrasta. Davanti a questi  sembra di sentire gli odori: del fieno, della terra, dei fiori di campo.

  Ci sono poi le marine, numerose e varie, nella loro sconfinata grandezza o nei loro aspetti parziali, nei loro dettagli, nelle loro rivelazioni ed esibizioni infinite, autunnali o estive. Oppure nella loro rasserenante immobilità o nelle loro tempestose irruenze e trasgressioni naturali: marine ora dominate dall’azzurro ora dal bianco ora dal colore indefinibile che quell’ora, quel punto di osservazione, quell’attimo particolare ha permesso  di catturare.

  C’è infine una Sicilia dalla religiosità arcaica, medievale o barocca, in cui l’anima della gente s’incarna nella figura del santo Patrono o del Cristo crocifisso e quasi trasvolante sulla folla, sospeso fra cielo e terra; e c’è una Sicilia delle metafore, una Sicilia teatro del mondo, una Sicilia impressionisticamente raffigurata nell’abbagliante rosso dei suoi papaveri, i fiori cari e sacri a Démetra perché nascono e crescono tra le spighe di cui la dea era protettrice.

  Il cammino  lungo la multiforme isola dei vulcani, dei monti aspri e lunari, delle acque e dei boschi, dei cavalli e degli ulivi, delle albe e dei tramonti, ha una singolarità: quella di essere terra di affascinanti immagini fisiche e  specchio riflettente dello spirito più profondo che essa ha desunto dalla mitologia, dalle tante dominazioni e soprattutto dalla molteplicità di carattere della sua gente.

Acquedolci, 6 marzo 2011

 

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