Si riaccende oggi nella memoria, ad oltre
trent'anni dalla scomparsa, la luce del ricordo dell'insigne Professor
Salvatore Curasì;
si riaccende con un gesto simbolico, con
l'intitolazione di questa piazza, della piazza di Forno Alto, alla sua
veneranda memoria, alla memoria di un uomo che dedicò la sua esistenza
all'insegnamento, all'educazione dei fanciulli e dei giovani.
Un ufficio, a cui il Curasì si accostò con
profondo spirito di abnegazione, in virtù della sua concezione "sacra"
della scuola e dell'istruzione.
Salvatore Curasì, nato a Capo d'Orlando il 15
giugno 1913, ultimo di quattro figli della famiglia di un valente
artigiano del luogo, completati gli studi elementari si trasferì a Patti,
ove ultimato il Ginnasio conseguì la Licenza Liceale Classica;
successivamente si iscrisse alla facoltà di Lettere dell'Università degli
Studi di Palermo.
Nel novembre del 1935 fu chiamato a prestare il
servizio militare come Tenente d'artiglieria nella stessa città,
congedandosi nel maggio del 1937.
Nello stesso anno si presentò agli esami di
abilitazione magistrale conseguendo con successo il diploma di maestro.
Qualche mese dopo partecipò al concorso
magistrale.
Risultando vincitore, tra i primi, fu assegnato
presso la scuola elementare di Rocca di Caprileone, ove rimase per circa
un anno, avendo ottenuto il trasferimento nel suo paese d'origine.
In questi anni coniugò con molti sacrifici, lavoro
e studi universitari; ma nel giugno del 1940 dovette, quasi prossimo alla
laurea, abbandonare gli studi, poiché con l'entrata in guerra dell'Italia
fu richiamato alle armi.
Catturato dagli Inglesi in Africa, fu condotto in
India, ove rimase per sei lunghi anni.
Tornato dalla prigionia nell'agosto del 1946
riprese l'insegnamento, attività che lo accompagnò fino al 1966 (14
marzo), anno della sua prematura scomparsa.
Uomo di elevata statura morale ed intellettuale,
il Curasì, nella sua vita, sentì l'insegnamento non come mestiere o
professione, ma come grande, nobile ed umile missione.
La filosofia educativa che ispirava il suo
operato, traspare nitidamente da una confidenza raccolta dal Poeta
Ciccino Mancari, compagno di una vita, e amico fraterno del Curasì.
Ricorda il Mancari: "Mi diceva il Curasì: Mio
caro Ciccino, insegnare nelle - scuole elementari - è più difficile che
insegnare all'università, perché all'università vi è un dibattito di
sapere fra uomini adulti, mentre nelle scuole elementari abbiamo dei
fanciulli che devono farsi - crescendo - uomini e pilastri della Nazione,
e quindi, ciascun insegnante, ha il dovere di saper impartire delle vere
verità, perché la mente del fanciullo è come un foglio di carta bianca, e
ciò che vi si scrive è molto difficile poi cancellarlo… Il bambino non è
altro che un vivaio che deve essere curato, bisogna farlo crescere alla
luce del sole e non all'ombra, è questo il dovere di ogni insegnante
cittadino onesto".
L'esperienza educativa del Curasì si sviluppa
parallela a quella di un noto educatore cattolico, Don Lorenzo Milani,
conosciuto anche con l'appellativo di "Priore di Barbiana"; molti sono i
punti di contatto e le identità di pensiero e metodo che è possibile
cogliere da un ideale raffronto.
Per Lorenzo Milani, come per il Curasì,
l'istruzione è sinonimo di libertà, di affrancamento dal bisogno, di
affrancamento dall'ignoranza; la conoscenza, la forza vivificatrice della
parola è lo strumento potente che permette di affrontare dignitosamente e
combattere la vita.
Esercitare l'insegnamento come un ministero,
educare con amore e non con l'imposizione, questi erano i principi
ispiratori che lo animavano, corroborati da una carica umana non
indifferente di pazienza e dedizione totale.
La sua attività, spesso, iniziava alle sette di
mattina per concludersi alle undici di sera; Curasì non insegnava per
vivere, ma "viveva per insegnare".
Sempre pronto ad aiutare chi ne avesse bisogno,
non guardò mai in tasca ad alcuno per vedere se potesse pagargli la
lezione.
Le sue lezioni spaziavano dal latino, dal greco,
dal francese (materie in cui era specialista) alle più svariate
discipline, matematica, geografia, storia, psicologia, filosofia, ecc..
Per stare dietro ai numerosi alunni, spesso,
studiava anche di notte.
Il suo animo era uno scrigno di virtù, in cui
oltre alle qualità di ottimo insegnante, potevasi attingere a piene mani
bontà, generosità, altruismo, profondo rispetto della persona umana.
Generalmente suol dirsi che la bontà nasce con
l'uomo, i suoi familiari raccontano che all'età di due anni circa, una
mattina, rimase a letto con la febbre; la sorella Rosalia andò a portargli
il latte e trovò il piccolo Salvatore con il crocifisso, che aveva
staccato dal muro, in mano.
Sorpresa gli chiese: "Salvatore, cosa stai
facendo?", ottenendo come risposta: "Il Signore si è stancato di stare
appeso con le braccia aperte, voglio togliergli i chiodi per farlo
riposare…".
La sua riposta sensibilità, il suo vivere la
solidarietà, forse muovevano da questa consapevolezza….
Credeva fermamente nell'amicizia, e sapeva farsi
amare come un bambino; il nipote Rocco, racconta, che ancora ragazzino
accompagnando lo zio a Ucria dove andava a trovare un amico che aveva
condiviso con lui la lunga prigionia in India, rimase profondamente
colpito dalla gioia che l'amico provava a trovarselo davanti: "Schizzava
gioia da tutti i pori, non smetteva di abbracciarlo, di guardarselo, di
chiamarlo affettuosamente".
Sarebbero ancora molti gli episodi, le vicende,
che potrebbero raccontarsi e raccontarci Curasì, ma credo che quanto già
detto sia sufficiente per delineare la forte personalità del "nostro".
Nei ricordi dei suoi alunni e di quanti lo
conobbero, Curasì vive come un maestro eccellente, uomo preparato, di
grande cultura e filosofia, intelligente, fattivo, nobile, caritatevole,
umile, per nulla superbo.
A forgiare la forte personalità del Curasì,
sicuramente influì anche l'esperienza amara e dolorosa della grande crisi
dei primi anni 30, in cui per mantenersi agli studi, dovette affrontare,
insieme con la sua famiglia, non poche privazioni e sacrifici, ma la dura
"scuola della necessità", anziché rattristarlo lo rese più attento ai
bisogni degli altri, affinché non avessero a patire quanto da lui
sofferto.
Questa esperienza maturò la concezione secondo cui
un uomo, se è ricco di valori, di principi, anche se viene liberato
dall'involucro molle dell'avere, non rimane vuoto, è il suo stesso
"essere" a contenerlo.
Il Poeta Ciccino Mancari in ricordo di
quegli anni e dell'amico Curasì, gli dedica una poesia (poesia
classificatasi, tra l'altro, al terzo posto, nel 1984 a Roma,
al "Premio Nazionale di Poesia Regionale" curato dal Gruppo Artistico
Culturale Monteverde), poesia che intitola "Fratello", e scrive:
"Calava dietro i monti il sole, / e si vestia a
strisce / di rosso chiaro il cielo. / Moriva - lento - il giorno. /
Ritornava il sole, / e riprendeva la speranza in cuore. / Fumare, / sotto
limpidi raggi di luna, / in due, una sigaretta. / Guardare… / spazi -
orizzonti - / e, nel cielo turchino, / il carro dell'Orsa Maggiore. /
Ricordi, fratello, quei tempi?! / Uomini… / sotto il peso di pensieri
dolenti. / Uomini, fratello, / Uomini nell'ombra / ma uomini viventi.
Accostarsi alla nobile figura del Curasì e
riuscire a trattenere la commozione è un'impresa ardua per chiunque,
specialmente per me, che non ero ancora nato quando lui aveva finito di
tracciare l'arco della sua vita;
accostarsi, parlare del Curasì, senza averlo
conosciuto, seguendo la linea di una ricerca attenta e severa, assume un
significato particolare;
è con questo gesto semplice che il Curasì, il suo
prezioso esempio, viene affidato alle generazioni successive: "Debole è la
memoria che non ha la forza di sopravviverci, di sopravvivere oltre il
ricordo";
ed è con questa certezza che guarderemo la targa
che da oggi su questa piazza porta il suo nome, guarderemo al suo luminoso
esempio, alla dirittura morale di un uomo che non scese mai a promessi né
a compromessi, ma rimase sempre se stesso, nella sua dignità personale e
professionale;
guarderemo a un uomo che dedicò la sua esistenza
alla famiglia e al prossimo, e che pur lavorando strenuamente, non si
arricchì, né approfittò mai di alcuno, tanto che potremmo mettergli in
bocca le stesse parole che Cervantes, mette in bocca nel "Don Chisciotte"
a Sancho Panza alla fine del suo governatorato: "Andandomene, nudo,
come me ne vado, in effetti, è chiaro che ho governato come un angelo"
guarderemo soprattutto al Curasì, come al
"Maestro buono" che nella sua vita dimostrò che la bontà non è una parola
vuota, una "flatus vocis" ma può divenire una pratica quotidiana calata
nella dimensione concreta del vivere!