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  da “La Repubblica” 3 novembre 2000

 

L’ISOLA PERDUTA

di

VINCENZO CONSOLO

  RICORDO una Sicilia come era da secoli, le sue coste ancora intatte, dove soltanto dopo la fine delle guerre corsare, finita la paura delle incursioni barbaresche - e questo avveniva nel 1830, con la conquista di Algeri da parte dei francesi - s’erano popolati villaggi, tonnare, paesini di pescatori, di contadini, spesso raccolti attorno alle antiche torri di guardia.

  Quelle torri dette saracene, ma che in realtà erano state fatte costruire dai viceré spagnoli a difesa appunto dagli assalti dei pirati.

  Paesi armoniosi, anche belli.

  RICORDO (e cosa può dire ormai uno della mia età che ha visto com'era prima e come è stata sconciata poi la sua terra, come è stato cancellato il luogo della sua memoria, cosa può dire, ripetere, con pena, con rimpianto, se non: ricordo, ricordo?), ricordo soprattutto la mia costa tirrenica con il suo Appennino a ridosso - le Madonie, i Nebrodi, i Peloritani -, con i suoi boschi, i suoi oliveti, i suoi agrumeti, le sue fiumare; la costa che, fra le tre dell'isola, De Amicis disse la più bella nel suo Viaggio in Sicilia.

  E, di questa costa, i suoi mitici capi: il capo Zafferano, a ponente, dietro il quale s'apriva il gran golfo di Palermo, il capo di Cefalù, d'Orlando, del Tindari, di Milazzo, del Peloro, oltre il quale si spiegava il gran teatro dello Stretto.

  Di ognuno di questi luoghi, di ognuno di questi paesi, appassionato come sono sempre stato di storie locali, potrei raccontare origini e vicende.

  E alle storie aggiungere le fantasie di un poeta di queste parti, che ho frequentato e amato, Lucio Piccolo di Calanovella, cugino di Tomasi di Lampedusa.

  Piccolo, chiuso nella sua solitaria villa sopra i colli di Capo d'Orlando, ha trasfuso nei suoi versi, in Gioco a nascondere e canti barocchi, in Plumelia, tutta la bellezza e la magia di questi luoghi.

  E favoleggiava anche di imprese che aulici personaggi per queste plaghe avevano compiuto: di Ruggero il Normanno, ad esempio, che, dopo aver vinto in battaglia i saraceni, lascia per voto, nel convento di Fragalà, il suo stendardo; di un'aura sveva che ancora qui aleggiava, del "Vento di Soave", del grande Federico II, dai cui amori con Bianca Lancia, nel castello di Brolo, era nato il "biondo e bello" Manfredi...

 I giorni della luce fragile, i giorni / che restarono presi ad uno scrollo / fresco di rami / a un incontro d'acque, / e la corrente li portò lontano, / di là dagli orizzonti, oltre il ricordo...

  Così cantava Piccolo.

  Ma non una corrente d'acque portò via quel tempo umano di fragile bellezza,  ma una cieca furia, una tempesta di violenza, di barbarie, di calcolo, di meschino criminale interesse.

  Nell'arco di pochi anni, un'orrenda, grigia colata di cemento, eruttata da quell'utero tonante siciliano che si chiama mafia, si chiama potere politico mafioso, si è abbattuta sulla costa della mia memoria, su ogni villaggio e città dell'isola, seppellendo anche i luoghi più "sacri", più intoccabili per valore artistico o antichità.

  E niente, neanche le storie locali, nessuno più può ridarmi la memoria del promontorio di Tindari, la "mite" Tindari di Quasimodo, la città greca e romana con il suo Teatro, il suo Ginnasio con la teoria di statue togate sotto i suoi archi, il piccolo santuario d'arenaria della negra Madonna bizantina, e i laghi marini azzurri e verdi laggiù, ai piedi del promontorio.

  Nessuno più può ridarmi la piana di agrumi di Capo d'Orlando, il villaggio di pescatori di San Gregorio, la spiaggia di Calanovella, di Torre del Lauro o di Gioiosa Marea...

  Più nessuno, la fiumara dell'Imera, del Pollina, del Rosmarino, del Mela...

  Più nessuno, acora, la Catania, la Acitrezza, la Siracusa, la Noto del mio ricordo; più nessuno, Palermo, Trapani, Agrigento, Gela o Selinunte...

  E dunque per quanto hanno fatto contro Piccolo e Quasimodo, vale a dire contro la poesia, la cultura e la civiltà, per quanto hanno sottratto a persone della mia e delle successive generazioni, dell'armonia e della bellezza che hanno sottratto alle future generazioni, per un delitto così obbrobrioso, così grave, i responsabili - che tutti conosciamo - oltre che da quello penale, dovrebbero essere processati dal tribunale della storia, dalla corte d'appello della civiltà.

  Credevamo che delitti come quelli perpetrati in passato, da piccoli profittatori e da grandi speculatori mafiosi, dopo la presa di coscienza lungo questi anni della società civile e la responsabilizzazione della classe politica, credevamo che misfatti come quelli del passato (abusivismo, speculazione, corruzione) non potessero più trovare assoluzione.

  Ma oggi arriva il nuovo messaggio del governo regionale siciliano:

tutti gli abusivi - i distruttori di tutte le coste siciliane, gli abusivi di Triscina, presso Selinunte, gli abusivi della Valle dei templi di Agrigento, gli abusivi di Vittoria e di Gela, tutti gli abusivi di quest'isola infelice - possono essere condonati.

  Altri dunque possono ricominciare ad abusare di quel che rimane della saccheggiata, perduta Sicilia.

  E possono di conseguenza tornare a crepitare le lupare e i kalashnikov, ad esplodere le cariche di tritolo: tutto può tornare.

  Perché la vecchia, abietta Sicilia non muore mai.

  Vergogna! Per loro queste parole di Eschilo, di cui certamente non hanno mai sentito pronunciare il nome:  Quale erba cresciuta / nel veleno, quale acqua / sgorgata dal fondo del mare / hai ingoiato...

"S.O.S. kasa in libertà"

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